
Vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo, raccontati in oltre 120 opere d’arte. Una grande mostra farà conoscere al pubbico italiano "Il mondo che non c’era".
Capolavori mai visti della Collezione Ligabue, preziose testimonianze delle antiche raccolte dei Medici e prestiti internazionali ci accompagnano in uno spettacolare viaggio nelle civiltà precolombiane, saranno in mostra a Firenze, nelle sale del Museo Archeologico Nazionale, dal 18 settembre 2015 al 6 marzo 2016.
Agli
albori del XVI secolo l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le
"Indie", ovvero "Il mondo che non c’era". Un evento che scardina la
visione culturale del tradizionale asse Roma - Grecia – Oriente;
l’incontro di un nuovo continente è l’evento forse più importante nella
storia dell’umanità secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss.
A "Il
mondo che non c’era", alle tante e diverse civiltà precolombiane che
avevano prosperato per migliaia di anni in quella terra è dedicata la
spettacolare mostra che si terrà al Museo Archeologico Nazionale di
Firenze, con un corpus di capolavori - quasi tutti mai visti prima d’ora
- espressione delle grandi civiltà della cosiddetta Mesoamerica (gran
parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del
Salvador) e delle Ande (Panama, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a
Cile e Argentina): dagli Olmechi ai Maya, agli Aztechi; dalla cultura
Chavin, a quelle Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.
Fu un fiorentino
del resto, Amerigo Vespucci, a comprendere per primo che le terre
incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al
largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma
un "Mundus Novus", un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni
geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo
onore, "America".
I Medici, signori di Firenze, risultarono i primi
governanti europei a decideredi preservare nelle loro collezioni alcuni
degli affascinanti e spesso enigmatici manufatti arrivati dalle "Indie"
come quelli dei Taino - gli indigeni incontrati da Colombo - che i
conquistatores avevano portato in Europa. Tra i primi a considerare
quegli oggetti vere opere d’arte fu Albert Dürer che, di fronte ai
regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse:
"Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non
ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti".
Promossa
dal Centro Studi e Ricerche Ligabue di Venezia e dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici della Toscana-Museo Archeologico Nazionale,
prodotta con atto di mecenatismo da Ligabue SpA, con il patrocinio della
Regione Toscana e del Comune di Firenze, la mostra presenterà pezzi
eccezionali e unici appartenuti proprio alle collezioni medicee, così
come opere preziose del Musée du Quai Branly di Parigi e di prestigiose
collezioni internazionali. Ma il nucleo centrale sarà costituito da una
vasta selezione di opere delle antiche culture Americane, mai esposte
prima d’ora, appartenenti alla Collezione Ligabue.
A pochi mesi
dalla sua scomparsa, questa mostra vuole essere infatti anche un omaggio
alla figura di Giancarlo Ligabue (1931- 2015) da parte del figlio Inti,
che continua l’impegno nella ricerca culturale e scientifica e nella
divulgazione, attraverso il Centro Studi fondato oltre 40 anni fa dal
padre Giancarlo: paleontologo, studioso di archeologia e antropologia,
esploratore, imprenditore illuminato, appassionato collezionista.
Oltre
ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti,
partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni, con
ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei
diversi Paesi, Giancarlo Ligabue ha dato vita negli anni a un’importante
collezione d’oggetti d’arte, provenienti da moltissime culture.
Una
parte di questa collezione sarà il cuore della mostra, curata da Jacques
Blazy (tra i membri del comitato scientifico, André Delpuech capo
conservatore al Quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann
Doig), specialista delle arti preispaniche della Mesoamerica e
dell’America del Sud. Un’esposizione straordinaria che consentirà di
scoprire, attraverso oltre 120 opere d’arte, le società, i miti, le
divinità, i giochi, le scritture, le capacità tecniche e artistiche di
quei popoli. Un vero evento, in particolare, sarà la presenza di diverse
maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della
Mesoamerica, e di un nucleo preziosissimo di vasi Maya d’epoca classica,
preziosissime fonti d’informazione - con le loro decorazioni e
iscrizioni - sulla civiltà e sulla scrittura Maya.
Il viaggio,
affascinante, nel cuore delle civiltà Mesoamericane prenderà dunque il
via dalle testimonianze delle cultura Tlalica e Olmeca (dal 1200 al 400
circa a.C.), con esempi di quelle figurine antropomorfe di ceramica cava
provenienti da necropoli - per lo più rappresentazioni femminili, con
un evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo
appena abbozzato - che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera,
la moglie Frida Kahlo e diversi surrealisti. La cultura Olmeca si
diffuse attraverso tutta la Mesoamerica fino alla Costa Rica, compresa
la regione di Guerrero (Xochipala) famosa per le statuine di donne nude,
giocatori della palla, coppie o danzatori dai corpi modellati e
realistici e, in genere, per la produzione lapidea (tra il 500 a.C e il
500 d.C.), che si svilupperà anche nella cosiddetta scultura Mezcala.
Una manifestazione artistica tanto enigmatica nella sua semplicità
quanto misteriosa nelle origini, al punto che ne restarono
profondamente suggestionati anche André Breton, Paul Eluard e lo
scultore Henry Moore, artisti che diventarono anche collezionisti di
quelle figure di pietra.
Tra il 300 a.C e il 250 d.C. l’Occidente del
Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo collocate
sotto le abitazioni. Il viatico funebre di queste tombe - formato da
ceramiche a forma di granchio, cane, armadillo, rospo - è eccezionale e
offre importanti informazioni sulla vita quotidiana e la religione. Tra
le varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il
cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C.) è conosciuta per le
statuette policrome di ceramica cava, delle quali sono in mostra alcuni
notevoli esemplari, come la Grande Venere con la mani congiunte sul
ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla appartenuta
alla collezione Guy Joussemet e ora in quella Ligabue.
Quindi
Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale,
letteralmente "la città dove si fanno gli dei" e dove furono costruiti
monumenti emblematici come la Piramide del Sole, quella della Luna e la
Piramide del Serpente piumato. Leggendaria l’abilità dei tagliatori di
pietra di Teotihuacan; l’arte lapidaria appare molto stilizzata, persino
geometrizzata e ha prodotto pezzi monumentali ma anche le famose ed
inconsuete maschere di Teotihuacan. Concepite secondo un modello
standardizzato, con il volto a forma di un triangolo rovesciato, fronte e
naso larghi, labbra spesse e sopracciglia marcate, le opere esposte in
questa occasione (tra cui alcune provenienti dalle collezioni antiche di
André Breton e di Paul Matisse) potrebbero essere servite come maschere
funerarie. Una di queste, La maschera in onice verde, conservata al
Museo degli Argenti è appartenuta alla collezione dei Medici ed è un
esemplare davvero notevole di quella produzione.
Interessanti per la
perizia tecnica dell’ampia decorazione, sono i due punteruoli realizzati
in ossa di giaguaro, animale emblematico del mondo mesoamericano
associato alle più alte funzioni politiche e sacre. I due strumenti,
originari di Michoacan - ma con un’iconografia tipica di Teotihuacan,
glifi, testa di felino, fiamme -, sono di probabile uso rituale,
destinati per l’autosacrificio o a pratiche che implicavano la
perforazione della carne: è incisa l’immagine del destinatario divino al
quale il penitente offriva il suo sangue.
Della cultura Zapoteca,
che si diffonde nel Centro del Messico nella regione di Oaxaca dal 500
a.C. al 700 d.C e vede il suo centro nella città di Monte Albàn, sono
altresì in mostra alcune delle famose urne cinerarie che appaiono dal
200 a.C al 200 d.C (II fase). Con la loro effige spesso antropomorfa,
rappresentante un personaggio seduto con le gambe incrociate e le mani
sulle ginocchia - probabilmente Cocijo, dio zapoteco della pioggia, del
fulmine e del tuono - sono state trovate in differenti inumazioni; e
resta da chiarire ancora la loro funzione.
Singolari anche le
statuette realistiche in ceramica della cultura classica della Costa del
Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con bitume dopo la cottura, come
anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della
palla e le statue che rappresentano personaggi sorridenti o ridenti,
davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che frequentemente propone
esseri impersonali e inespressivi.
A introdurci nella cultura e nelle
società dei Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali
addomesticati come i tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e
con bellissimi gioielli (spettacolare la collana di giada esposta)
raffigurati in piatti, sculture o stele. Ma sono soprattutto i
bellissimi e preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente decorati,
che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa
civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i
signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o
giovani signori dai copricapi piumati sono i protagonisti che popolano i
vasellami in mostra.
Sono Aztechi invece gli importanti propulsori o
atlati, utilizzati per lanciare frecce e provenienti dalle wunderkammer
medicee e ora nel Museo di Antropologia di Firenze: sono tra i
pochissimi strumenti di questo tipo decorati in oro.
Il viaggio
continua con le testimonianze dal Sud America: dalla spettacolare
produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia,
agli oggetti degli Inca; dal mondo dell’antico Chavin, dai tessuti e
vasi della regione di Nazca, all’affascinante cultura Moche. Ma sarà
l’oro, come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata
"tumbaga"), a spingere nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca
dell’El Dorado, uno dei grandi miti, vero motore della Conquista.
L’America,
che aveva stupito e affascinato con i suoi "strani" indigeni, la natura
così diversa e le sue meravigliose opere, in breve viene considerata
solo per le tonnellate d’oro e d’argento che giungono sui galeoni in
Europa. E se i Medici a Firenze conservano nelle loro raccolte le
testimonianze del Mondo che non c’era - tra i capolavori in mostra anche
un collier Taino del XIV-XV secolo -, gli Spagnoli fondono quegli
oggetti in metallo prezioso per usarlo poi come moneta.
In pochi
decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati
si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno
annichilite con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino
praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non
esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a
causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno
quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della
grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti
aspetti delle culture precolombiane, di quella parte di umanità che,
all’improvviso, nell’ottobre del 1492, comparve all’orizzonte dei
navigatori in cerca delle Indie.
Nicoletta Curradi